L'essenza del potere personale
"Potere è bello!" scrivevamo - con Massimo Bruscaglioni - quasi 25 anni fa nel volume attraverso cui abbiamo cercato di rendere nota la nostra idea di empowerment psicologico. In questo breve post vorrei riprendere in modo sintetico e, spero, convincente, il perchè di questa affermazione e del metodo che ne discende.
Stefano Gheno
9/24/20246 min read
Poveri noi, ci manca sempre qualcosa. È un fatto, un dato, non siamo mai pienamente soddisfatti, perchè continuamente emergono necessità, mancanze, limiti. Tuttavia ogni tanto ci accorgiamo che noi non siamo i nostri limiti, anzi - nonostante essi - noi "possiamo", cioè abbiamo del potere: in inglese si usa a tale proposito il termine power, che significa potere, ma anche energia. Da power nasce una parola nuova empowerment, al tempo stesso un processo e una condizione.
Il concetto di empowerment nasce e si sviluppa inizialmente negli Stati Uniti d’America, in un contesto storico e culturale peculiare. Da allora è trascorso più di mezzo secolo ed oggi empowerment è un termine molto utilizzato in tutto il mondo, con significati ampi e diversi, ma quando è stato coniato la sua cornice di riferimento era quella della psicologia sociale, o meglio della psicologia di comunità. Empowerment era un termine che si riferiva alla necessità di dare “potere” alle persone, alle comunità, in particolare a quelle più svantaggiate.
Da subito viene descritto come concetto multilivello: si può trattare l’empowerment a livello sociale, uno comunitario, organizzativo, infine personale, o psicologico. In quest’ultima accezione l’empowerment va a coincidere con quello che chiamiamo “sentimento di potere”: il sentirsi in grado di esercitare un governo e almeno un certo grado di controllo sulla propria vita (il contrario del sentirsi impotente), nonché con il processo psicologico di sviluppo di tale sentimento.
Il termine self-empowerment è stato introdotto da Massimo Bruscaglioni per descrivere, innanzitutto, il modello operativo del processo di sviluppo del sentimento di potere. Potere è una parola con diverse sfumature, molto spesso almeno nel nostro paese, abbiamo un’idea di potere di tipo relazionale, potere su qualcuno, il mio potere è legato al fatto di influenzare qualcun’altro, potere come esercizio di autorità e di influenza gerarchica sulle altre persone. Ma questo non è l’unico significato che possiamo trovare: nel dominio semantico del potere possiamo rintracciare anche un “potere da”. Nella rappresentazione collettiva è il verbo delle persone che non dipendono, che non devono chiedere niente a nessuno. Infine, un’altra accezione è il “potere di”. Anche in questo caso potere, più che un sostantivo, è un verbo. Nel potere come verbo c’è molto di più l’idea della possibilità (io posso): un potere personale “positivo”. Mentre il potere relazionale si esercita riducendo i gradi di libertà degli altri, il potere positivo si esercita aumentando i gradi di libertà. Si tratta quindi di due concezioni di potere diverse e spesso antagoniste.
Il desiderio è una risorsa chiave per sviluppare il sentimento di potere, quindi partiremo da qui. Si tratta una parola “ombrello”. Nella cultura del self-empowerment il desiderio ha un significato e delle caratteristiche ben precise, che cercheremo di analizzare anche perché senza conoscere le sue caratteristiche è difficile lavorare su di esso.
Il punto di partenza del processo è quello che chiamo un “io in situazione”. Se considero l’essere umano nella sua dimensione ecologica, cioè in relazione con l’ambiente nelle diverse situazioni che la vita offre, si evidenzia una sua condizione intrinseca: l’essere portatore di esigenze, necessità, bisogni. L’agire dell’uomo è risposta a tali bisogni. Tuttavia, di per sé, la scoperta di essere bisognoso, non porta necessariamente all’azione. Quello di cui necessitiamo per metterci in movimento è che il nostro bisogno si traduca in un desiderio. L’elemento genetico del self-empowerment è quindi una faticosa dialettica tra bisogno desiderio. È quest’ultimo che permette all’uomo di avviare un processo di pensabilità, che è un elemento imprescindibile per poter aprire nuove possibilità. Man mano che si procede nel processo, la domanda diventa “come potrò realizzare il mio desiderio?” Dovrò partire da una o più ipotesi circa la realizzazione dei miei desideri. Dopo di che può partire L’azione: quel momento in cui l’io può sperimentare e verificare le possibilità che ha pensato. Senza l’azione non si apre una reale possibilità. Vi è un’ipotesi di partenza, magari un progetto, ma la possibilità ha necessità di provarsi in azione. Tuttavia, in molti casi, il passaggio all’azione sia tutt’altro che semplice. Richiede una grande energia e, tipicamente, è il desiderio che ci spinge: il mettersi in movimento è possibile perché un desiderio ci guida. Lavorare sul desiderio, dunque, non ci rimanda solo alla pensabilità, ma sostiene anche il movimento, l’azione.
Frequentemente il motivo per cui cerchiamo di aumentare il nostro personale sentimento di potere è per realizzare un nostro desiderio di cambiare qualcosa. Ma allora perché se vogliamo cambiare, non lo facciamo e basta? Certo spesso non sappiamo come fare, ma non si tratta solo di incapacità: c’è una resistenza ultima a cambiare, talvolta anche di fronte a una evidente condizione di svantaggio. Sono tre le principali cause della nostra resistenza al cambiamento:
Non crediamo necessario o opportuno cambiare;
lo crediamo opportuno o necessario, ma non sappiamo come fare;
infine, sapremmo anche cosa ci è richiesto per cambiare, ma non ci sentiamo in grado di farlo.
Devo a questo riguardo introdurre nuovi elementi rilevante nello sviluppo del potere personale, i “killer” psicologici. Di per sé non coincidono con i nostri limiti, mancanze e neanche con la fatica che le nostre difficoltà provocano. Li possiamo piuttosto definire come un fattore di blocco delle iniziative volte a superare la condizione di fatica, inevitabile nel cambiamento. Vi è quindi un rapporto tra fatica, disagio e killer psicologici, anche se si tratta di un rapporto non-lineare. Qual è la loro genesi?
La prima grande esperienza pienamente umana è proprio quella di scoprirsi bisognoso, mancanti di qualcosa, limitati. Questo nella vita succede molto presto e questa esperienza primitiva del limite va a fondare una antinomia tra l’onnipotenza del bambino (“io posso tutto”) e l’impotenza. È su questa antinomia che iniziano a radicarsi quelle difficoltà che poi porteranno a far emergere quelli che chiamiamo killer psicologici.
Poi, nel procedere della nostra vita ci accorgiamo che, nonostante la ferita provocata dall’esperienza della mancanza e dai nostri limiti, siamo capaci di desiderio, siamo “programmati” a che, davanti al bisogno, si attivi il desiderio di farvi fronte. Così la persona non resta schiacciata dal suo limite, ma avvia una dinamica di potere, nel senso dell’apertura di una possibilità che gli permetta di non essere determinato dal limite stesso, ma di perseguire i propri desideri.
Tuttavia, nell’attivarsi di questa dinamica desiderante, riemerge anche l’antinomia originale: se non sono onnipotente, sarò impotente. La riduzione del desiderio è un tentativo di difendersi dalla frustrazione dell’impotenza: “non sono io che non posso, è che non mi interessa”, “non è cosa per me”, oppure “c’è qualcuno che me lo impedisce”.
Senza l’energia che ci viene dal desiderare, il nostro protagonismo è certamente ridotto, se non – addirittura – annichilito. D’altra parte, i killer psicologici sono emanazione della nostra storia (le avevamo definite difficoltà storiche soggettive), ci aiutano a ricordare i nostri limiti, a ridimensionare la tentazione dell’onnipotenza. Quindi? Dobbiamo certamente metterli nella condizione di non nuocerci, nel nostro approccio ci proponiamo di ridurre il potere offensivo delle difficoltà storiche soggettive. Chiamiamo de-killering questo processo di depotenziamento. Tre sono le strategie utilizzabili a riguardo:
· l’aggiramento. Ci sono degli ostacoli, fuori e dentro di noi, dobbiamo metterli in condizione di non nuocere al nostro viaggio e, quindi, proviamo ad aggirarli. Troviamo una strada diversa, magari più lenta, ma che mi permetta di girare attorno al mio ostacolo. Si tratta innanzitutto di capire com’è fatto il killer, quindi conoscere le risorse che si hanno a disposizione. Per fare ciò è importante evitare di guardare le cose ad una distanza troppo ravvicinata, il rischio infatti è di confondersi, di non vedere più distintamente e riconoscere le diversità: noi non siamo i nostri killer! Prendendo le distanze dal problema, non interrompiamo la relazione con la realtà, ma possiamo allargare la nostra visione e cogliere maggiori indicazioni per poter praticare una modalità diversa di affrontare ciò che ci ostacola.
· la ristrutturazione del campo. Proviamo a vedere le cose da un altro punto di vista. Una caratteristica dei killer psicologici è quella di convincerci che c’è solo un modo solito di fare le cose e che noi non ne siamo capaci. Quindi cerchiamo nuove relazioni tra gli oggetti che compongono il nostro campo psicologico, per provare a costruire modalità diverse di leggere la realtà ed agire di conseguenza.
· l’accompagnamento. Camminare insieme ci fa stancare di meno: se siamo insieme ci possiamo sostenere reciprocamente e questo è fondamentale per il nostro benessere. Siamo esseri relazionali, ma spesso – davanti ai nostri problemi – ci sentiamo totalmente soli: “nessuno mi può capire, nessuno può fare questa mia fatica”, o magari crediamo di dover essere soli: “devo farcela da solo!”, “che vergogna, non ci riesco”. La capacità di farsi aiutare è una risorsa fondamentale per l’empowerment: nessuno ci può dare il potere personale, però possiamo trovarlo insieme (e l’altro può aiutarmi a riconoscerlo).
Stefano Gheno, PsyD
Sono un consulente di vecchia data! Sarò felice di accompagnarti nelle sfide che vorrai condividere con me.